NORD LADRO
Quando si
parla d’industria, l’immaginario collettivo pensa al Nord, pensa al triangolo
industriale Milano, Genova, Torino, come se il Padreterno avesse eletto i
padani a condurre l’economia, come se i meridionali fossero incapaci di
produrre beni, ma solo in grado di consumare ricchezza.
Leggendo le
statistiche del primo censimento dell’ Unità d’Italia,
ci accorgiamo che gli addetti nell’industria:
· Erano
1.595.359 nel Regno delle Due Sicilie
· Contro
i 376.955 del Regno di Sardegna.
· i
66.325 del Ducato di Parma,
· i
71.759 di Modena, Reggio Emilia e Massa,
· i
130.062 della Romagna,
· i
16.344 delle Marche,
· i
10.955 dell’Umbria,
· i
33.456 della Toscana.
Questi sono
dati forniti dal governo piemontese nel 1861 e quindi inconfutabili. 1.595.359
addetti nell’industria del Regno Borbonico contro 1.170.859 addetti del resto
d’Italia.
La
Campania nel 1860 era tra le regioni più industrializzate del mondo ed oggi,
dopo 150 anni di potere massonico, è definita “terra di camorra”.
Per
oltre un secolo scrittori salariati dal regime massonico hanno denigrato i
Borboni ed il loro Regno, tanto che la parola borbonico, nell’accezione
imperante, è diventata sinonimo di arretrato, di inefficiente. Naturalmente i
pennivendoli del Nord e del Sud, stava e sta a cuore solo il più bieco
servilismo nei confronti del regime piemontese prima e borghese massonico
capitalista oggi, hanno infangato un popolo, un Regno e la sua amministrazione,
la sua efficienza amministrativa e tributaria, hanno infangato i contadini del
Sud che erano accorsi a difendere la loro patria chiamandoli briganti, hanno
infangato la storia.
Oggi è sotto
gli occhi di tutti la voragine debitoria di questo Stato! Nel 1860 scannarono
il Sud ed il Sud ha pagato un prezzo enorme alla causa unitaria: quasi un milione
di morti, tra fucilati, incarcerati, impazziti, un decimo della popolazione, 20
milioni di emigranti; la spoliazione delle terre demaniali e dei beni
ecclesiastici, tutti i risparmi dei Meridionali rapinati.
I
pennivendoli di regime continuano a scrivere libri di storia menzogneri sull’ Unità d’Italia, danno al Sud colpe tremende di
parassitismo; continuano a chiamare “borbonica” la cattiva amministrazione e la
burocrazia di stampo piemontese e, soprattutto sono riusciti ad inculcare
nell’immaginario collettivo, senza spiegarne le cause, bombardando
continuamente le menti ormai fiaccate della gente, che Sud vuol dire mafia,
vuol dire camorra, vuol dire ‘ndrangheta, vuol dire far niente, vuol dire
assistito.
Questi
pennivendoli sperano di mettere un velo sull’intelligenza umana, di far
dimenticare a qualcuno le miserie del Nord, gli eccidi perpetrati dagli
invasori piemontesi, le prepotenze dei liberal-massoni di ieri e di oggi e
soprattutto vorrebbero farci dimenticare che il Sud era ricco.
Le finanze
del Regno delle Due Sicilie nel 1860 costituirono un bottino enorme per i
piemontesi ed i mercenari garibaldini al soldo inglese.
Vittorio
Gleijeses nella sua Storia di Napoli scrive:
“… Il tesoro del Regno delle Due Sicilie
rinsanguò le finanze del nuovo stato, mentre l’unificazione, in quanto il
Piemonte e la Toscana erano indebitate sino ai capelli ed il regno sardo era in
pieno fallimento. L’ex Regno delle Due Sicilie, quindi, sanò il passivo di
centinaia di milioni di lire del debito pubblico della nuova Italia e, per
tutta ricompensa, il meridione, oppresso dal severissimo sistema fiscale
savoiardo, fu declassato quasi a livello di colonia. Con l’unificazione, A
Napoli, aumentarono le imposte e le tasse, mentre i piemontesi videro ridotti i
loro imponibili e col denaro rubato al Sud poterono incrementare le loto
industrie ed il loro commercio”.
Ferdinando
Ritter ha scritto che:
“… il Regno delle Due Sicilie contribuì alla
formazione dell’erario nazionale, dopo l’unificazione d’Italia, nella misura di
ben 443 milioni di lire in oro, mentre il Piemonte, la Liguria e la Sardegna ne
corrisposero 27, la Lombardia 8,1, il Veneto 12,7, il Ducato di Modena 0,4,
Parma e Piacenza 1,2, la Romagna, le Marche e l’Umbria 55,3; la Toscana 84,2;
Roma 35,3…”.
La ricchezza
del Regno delle Due Sicilie era dovuta alla buona amministrazione pubblica che
dava autonomia impositiva ai comuni. Il Sud godeva di un patrimonio aureo di
poco inferiore al mezzo miliardo di lire in oro, più del doppio di quello degli
altri Stati d’Italia.
Nel Regno delle Due Sicilie l’emigrazione era una parola
inesistente nel vocabolario; tutti avevano un lavoro, l’occupazione era
completa, la scuola era pubblica e gratuita per tutti, ne mancavano quelle
private e quelle religiose; i vecchi venivano accolti in ospizi pubblici o
religiosi; i braccianti agricoli, quando non trovavano lavoro nelle tenute dei
possidenti, scorticavano le montagne demaniali e vi impiantavano vigne,
frutteti, uliveti; i pastori avevano libero accesso ai pascoli; i pescatori
utilizzavano pescherecci moderni costruiti nei cantieri navali del Regno; i
naviganti solcavano tutti i mari del mondo trasportando le merci prodotte nelle
fabbriche del Meridione d’Italia.
I prodotti
agricoli, essendo il vanto di un’agricoltura sana venivano trasformati negli
opifici locali e destinati all’estero dopo aver soddisfatto le esigenze degli
indigeni.
Si rimane
esterrefatti nel leggere le statistiche relative all’industria tessile,
all’industria metalmeccanica a quella ferroviaria e mercantile del Regno delle
Due Sicilie, in quanto le nostre orecchie sono state abituate da sempre a
sentire parlare di un Sud povero, pieno di mafiosi e di nulla facenti, insomma
un popolo di terroni. Nel Meridione vi era una fittissima rete di opifici
tessili che davano lavoro a decine di migliaia di operai, di fabbriche
metallurgiche e mercantili che, con una grossa rete di maestri artigiani e una
moderna industria di trasformazione agricola, formavano un tessuto di
prim’ordine.
Nel corso dei
secoli il Sud era sempre stato un paese esportatore di materie prime ed
importatore di manufatti. Dal 1820 al 1860 la situazione cambiò radicalmente:
una vera rivoluzione: Nel 1864 il Regno delle Due
Sicilie esportò lana per 65.991 ducati; nel 1842 ne vennero importati
1.000 quintali per soddisfare le esigenze delle nostre industrie del settore;
quantità che aumentò nel corso degli anni. Nel 1852 si importarono 15.000
quintali di lana.
Il cotone
cominciò ad essere importato attorno agli anni trenta in quanto le industrie
del Sud avevano esigenze nuove. Nel 1838 vennero importati 1710 quintali di
cotone; nel 1852 i quintali arrivarono a 11.078. Il cotone filato passò dalle
1.439 tonnellate del 1830 alle 3.429 del 1855. I prodotti manifatturieri in un
primo momento servirono a soddisfare le esigenze del mercato interno in
continua espansione, per poi essere esportati in tutto il mondo.
Da grande
esportatore di lana, il Sud divenne in un ventennio grande consumatore del
prodotto. Nel 1855 s’importarono cotone e lana per circa 100.000 ducati,
prodotti che venivano lavorati nelle industrie del Sud.
Intere zone
del Regno delle Due Sicilie vennero
rivoluzionate in poco tempo per la gran massa di operai impiegati in quelle
industrie. 200 mila persone, di cui centomila donne, lavoravano nel settore.
Nella Valle del Liri, in Ciociaria, gli imprenditori locali, aiutati da una
politica bancaria equa, investirono in un anno quasi un milione di ducati nel
settore tessile impiegando circa 15 mila operai su una popolazione di 30 mila
abitanti producendo annualmente oltre 360.000 canne di tessuti.
Nel 1846 a
Napoli ed in Terra di Lavoro lavoravano nel settore tessile 60 mila operai,
pari al 28% della popolazione residente nel territorio. Nel distretto di
Salerno gli operai addetti nelle fabbriche tessili erano 10.244. Famosissime
erano le tele fi lino di Cava de’ Tirreni. In una città come Arpino, sempre in
Ciociaria, che contava 12 mila abitanti, vi erano 32 fabbriche che impiegavano
7.000 operai locali.
Questo
pullulare di industrie aveva un unico titolare: il Banco
di Napoli che, favorito dalle leggi del Regno e avendo grandi capitali
da investire risparmiati dalle popolazioni meridionali, dava ricchezza
rimettendo il denaro nel circuito locale. Il tutto veniva facilitato dalla
continua protezione governativa.
L’INDUSTRIA
METALMECCANICA NEL REGNO DELLE DUE SICILIE
Per difendere
l’economia del suo regno, Ferdinando II il
15 Dicembre del 1823 ed il 20 Novembre emise provvedimenti doganali che
proteggevano lo sviluppo industriale autoctono.
Già nel 1818,
pochi anni dopo la Restaurazione, abbandonando i criteri liberistici che
producevano utili per pochi e disoccupazione per molti, il Sovrano napoletano
aveva imposto dazi elevati sui prodotti stranieri importati e dazi minimi sulle
merci d’importazione necessarie allo sviluppo delle sue terre.
Quanto alle
esportazioni, erano stati fissati dazi elevati per le materie prime che
potevano essere lavorate dall’industria napoletana. Fin dal 1821, inoltre,
erano stati aboliti i regolamenti sulle corporazioni. Erano stati spesso
anticipati capitali ai manifatturieri da parte della Cassa di Sconto.
Ferdinando II di Borbone |
Questa
politica fece dell’industria tessile e metalmeccanica due settori trainanti che
portarono molti stranieri ad investire nel Meridione. Tra essi ricordiamo
l’industriale Guppy, che con il suo connazionale Pattison, aveva intrapreso a
Napoli la costruzione di macchine agricole e macchine a vapore. La Fonderia di
Macry ed Henry, con sede al Ponte della Maddalena, con mille addetti operava
nel settore del ferro fuso.
Ferdinando II divenne, di fatto, il più dinamico
imprenditore del Regno.
Reale Opificio Meccanico e Politecnico di Pietrarsa |
Nacque così il Reale Opificio Meccanico e Politecnico di Pietrarsa, nei pressi di Napoli, con mille operai specializzati, fiore all’occhiello dell’industria partenopea. Lo stabilimento fu inaugurato nel 1840 da Ferdinando II di Borbone. Pietrarsa fu il primo nucleo veramente industriale italiano; lì si producevano, con tecnologie avanzate, treni e locomotive.
Le officine
della Breda nacquero 44 anni più tardi e la Fiat 57 anni dopo.
Sempre per
iniziativa del Re venne istituita la Real Fonderia in Castelnuovo (500 operai),
la Real Manifattura delle Armi in Torre Annunziata (500 operai), l’Arsenale di
Napoli ed il Cantiere Navale di Castellammare (2.000 operai). Altri 1.500
operai lavoravano alle Ferriere Mongiana in Calabria, con stabilimenti a
Pazzano ed a Bigonci.
Quattro
altiforni producevano 21.000 quintali di ghisa, mentre 200 operai specializzati
lavoravano nello stabilimento metalmeccanico di Cardinale, sempre in Calabria,
e producevano 2.000 quintali di ferro. Altri centri siderurgici e meccanici
erano sorti a Fuscaldo (Calabria), Picinisco (Terra di Lavoro), Picciano
(Abruzzo), Atripalda (Avellino). Altri ancora a Lecce, Foggia, Spinazzola:
questi ultimi specializzati nel produrre macchine agricole.
In ogni paese
nacquero piccole industrie, che erano il nerbo dell’economia reale del Regno.
Di notevole importanza erano le industrie della pasta alimentare, della
lavorazione del cuoio e per la produzione di colori, delle maioliche, di vetri,
cristalli, metalli preziosi, stoviglie, saponi, mobili, strumenti musicali di
precisione.
LE FERROVIE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE
Il 3 Ottobre
1839 venne inaugurata la Napoli-Portici, la prima ferrovia italiana: la
locomotiva a vapore coprì la distanza tra le due città in nove minuti, tra due
ali di folla festante e curiosa di vedere tanta potenza in quello sbuffare di
vapore. I pennivendoli post-unitari si affannarono per sostenere l’inutilità di
detta ferrovia, ritenuta un passatempo da giocattolo nelle mani del Re Borbone.
In realtà
quegli intellettuali da strapazzo tentarono di oscurare la grandezza illuminata
di Ferdinando II che, fortissimamente, aveva voluto dare impulso all’intero
assetto industriale del Regno.
Altro che
giocattoli! Dietro quella locomotiva c’erano le industrie di Pietrarsa, della
Mongiana e mille altre; industrie con personale qualificato e specializzato e
che preparavano i ragazzi con corsi di formazione.
Durante il
discorso d’inaugurazione, Ferdinando II espose
il suo progetto ferroviario. Il Sud doveva essere attraversato da due grandi
dorsali ferroviarie: la prima doveva collegare Napoli a Brindisi e dalla città
pugliese la ferrovia avrebbe dovuto Pescara, Ancona, Bologna e, passando per
Venezia, avrebbe dovuto ricongiungersi con le ferrovie danubiane e renane. La
seconda, partendo dalla Calabria e dalla Basilicata avrebbe dovuto raggiungere
Roma per poi proseguire per Firenze, Genova e Torino.
Nel 1840 la
via ferrata raggiunge Torre del Greco, nel 1842 Castellammare di Stabia, nel
1844 Nocera e quindi Salerno. A Nord di Napoli si lavorava speditamente: nel
1843 la ferrovia giunse a Caserta e nel 1844 a Capua e Sparanise.
Ilarione Petitti di Roreto |
Sulla
Gazzetta Piemontese del 30 Marzo 1847, Ilarione
Petitti di Roreto esprimeva la sua ammirazione per il programma
ferroviario avviato nel Regno delle Due Sicilie. Il Piemonte, arretrato e
guerrafondaio, riteneva detti programmi fantascientifici; Cavour aveva altro a
cui pensare e la storiografia ufficiale di regime fece passare per “grandi
opere” la costruzione del canale chiamato poi Cavour.
Il 16 Aprile
1855 Ferdinando II emanò un decreto
sottofirmato dal Direttore di Stato dei lavori pubblici, Salvatore Murena. L’art. 1 così recitava:
“Accordiamo concessione al Sig. Emanuele Melisburgo
di costruire una ferrovia da Napoli a Brindisi”.
Nello stesso
giorno il Re firmò un altro decreto in cui all’art. 1 dichiarava:
“accordiamo
concessione al Barone D. Panfilo De Riseis,
di costruire una ferrovia da Napoli agli Abruzzi, fino al Tronto, con una
diramazione per Ceprano, una per Popoli, una per Teramo ed una per Sansevero”.
Ferdinando
II aveva previsto persino
una ferrovia per il trasporto di animali dagli Abruzzi nelle Puglie per
alleviare le fatiche dei mandriani e le relative perdite di giumente compensate
così da un trasporto a tariffa conveniente.
Edoardo
Spagnuolo, nel n°5 dei
quaderni di Nazione Napoletana, così commenta la fine del sogno vissuto dalle
popolazioni meridionali dopo l’annessione:
“I grandi
progetti ferroviari del Governo Borbonico avevano dunque un fine preciso. Le
strade ferrate dovevano divenire un supporto fondamentale per l’economia
meridionale ed essere di servizio allo sviluppo industriale che il Mezzogiorno
d’Italia andava mirabilmente realizzando in quei tempi.
Il governo
unitario, dopo aver distrutto le fabbriche del Sud a proprio vantaggio,
realizzò un sistema ferroviario obsoleto che, assieme alle vie marittime, servì
non per trasportare merci per le manifatture e gli opifici del meridione ma per
caricare masse di diseredati verso le grigie e nebbiose contrade del Nord o
delle Americhe”.
LA MARINA MERCANTILE, LA VERA CAUSA PER LA DISTRUZIONE
DEL REGNO DELLE DUE SICILIE
Le industrie
del Sud richiedevano continuamente materie prime e quindi c’era bisogno di navi
che le trasportassero. Essendo l’Italia meridionale attraversata da una dorsale
appenninica formata di aspre montagne, e quindi da vie di comunicazione di
difficile attraversamento, fu naturale, sin dai tempi dell’Impero Romano, che
uomini e merci viaggiassero per mare.
Tutta la
costa era punteggiata di centri i cui cantieri navali erano rinomati in tutto
il mondo e che davano lavoro a migliaia d’operai che lavoravano nelle industrie
collegate.
Nel 1818 il
Regno delle Due Sicilie disponeva di 2.387 navi, nel 1833 il numero salì a
3.283, di cui ben 262 superiori alle 200 tonnellate e 42 che oltrepassavano le
300 tonnellate. Nel 1834 i bastimenti arrivarono a 5.493 per salire a 6.803 nel
1838. Nel 1852 il numero di navi e bastimenti arrivò a 8.884.
Nel 1860 la
flotta mercantile borbonica era la seconda d’Europa dopo quella inglese e
contava 9.848 bastimenti per 259.910 tonnellate di stazza, dei quali 17
piroscafi a vapore per 3.748 tonnellate, 23 barks per 10.413 tonnellate, 380
brigantini per 106.546 tonnellate, 211 brick schooners per 33.067 tonnellate, 6
navi per 2.432 tonnellate e moltissime imbarcazioni da pesca.
I cantieri
navali erano sparsi per tutta la costa tirrenica, ionica e adriatica.
Praticamente in ogni città costiera vi erano insediamenti accompagnati da
scuole di formazione professionale e scuole marittime e nautiche.
Tutti pensano
che Gaeta, allora, fosse solo una roccaforte militare che dava ospitalità a
circa 10.000 soldati. In realtà attorno alla fortezza ruotava un’agricoltura
ricchissima ed avanzata costellata da circa 300 tappeti che davano lavoro a
centinaia di persone, come pure vi erano fabbriche di sapone e di reti.
Gaeta, come
altre città del Regno, era ricchissima e la sua flotta mercantile vantava molte
società di navigazione con al servizio duemila marinai sempre in viaggio. Essa
era composta da 100 brigantini e martegane, da 60 a 220 tonnellate di stazza,
60 paranzelle da 30-40 tonnellate e circa 200 barche a vela da 2 a 20
tonnellate di stazza che ogni giorno si recavano a Napoli o a Roma attraverso
il Tevere trasportando merci e passeggeri. I cantieri navali di Gaeta, da
sempre attivi, costruivano brigantini, galeoni, saette e velieri che venivano
anche esportati.
Tutto questo
togliendo prestigio e competitività ad una grande Marina, alla Marina Reale
Inglese.
Le navi
napoletane toglievano fette sempre più ampie al mercato della cantieristica
inglese, non solo erano ottime, ma più economiche. Il varo della prima nave a
vapore del mediterraneo, l’attuazione di rotte che giungevano in America del
Nord, del Sud e nel Pacifico, stavano intaccando i mercati commerciali
Imperiali.
Soprattutto,
da lì a pochi anni si sarebbe aperto il Canale di Suez, e tal cosa avrebbe
rischiato di fare diventare il porto di Napoli, uno dei porti più importanti
dell’Europa ma innanzitutto la porta dell’Europa verso il cuore dell’impero
inglese, le Indie.
Questo non
poteva più essere tollerato. I Borboni erano a conoscenza di questo e, per
calmare le acque, avevano praticamente dato la Sicilia in usufrutto agli
inglesi, le miniere di zolfo erano indispensabili agli inglesi per la
produzione di polvere da sparo, ma non era bastato.
All’indomani
dell’invasione piemontese, l’industria e la cantieristica del Regno delle Due
Sicilie venne quasi praticamente tutta smontata e smantellata, si doveva
estirpare alla radice quel terribile concorrente economico. Non solo, lo Stato
Sabaudo, con una politica protezionistica a favore del Nord, con anticipi di
capitale e generosi sussidi a favore delle compagnie liguri e della nascente
industria padana, affossò patriotticamente la rimanente economia meridionale
costringendo alla fame intere popolazioni.
Con l’avvento dei Savoia, il Sud
importò solo fame e miseria per sconfiggere le quali erano possibili due
soluzioni: la rivoluzione o l’emigrazione.
Il popolo
verso la fine del 1860, insorse contro i piemontesi. Ma dieci anni di guerra
civile, e una politica da terra bruciata da parte dei Savoia, finirono per
distruggere l’intero assetto economico del Regno e la nazione precipitò nel
baratro.
Dopo la
sconfitta i Meridionali furono costretti ad abbandonare in massa la loro terra.
L’ISTRUZIONE PUBBLICA NEL
REGNO DELLE DUE SICILIE
Carlo III di Borbone |
Nel 1734 il
Sud andò a Carlo III di Borbone che, avendo
in dote 28 milioni di ducati, pensò bene ricomporre lo Stato attraverso la
cultura. Nacque così il ‘700 napoletano.
La scuola fu
l’istruzione realizzata per imporsi e per rinnovare il sapere della gente. Ogni
città, ogni villaggio doveva essere provvisto di scuole pubbliche. Ogni
provincia doveva avere una scuola per uomini ed una per donne, ove potessero
apprendere le scienze primarie e le belle arti e, per i nobili, esercizi di
colta società.
Nella
capitale fiorì l’Università con le diverse specializzazioni, università che era
considerata come l’atto finale e sublime della pubblica istruzione.
Nel 1806
molte leggi furono emanate nel Regno delle Due Sicilie:
si ebbe l’apertura di scuole speciali come l’Accademia delle Belle
Arti, la Scuola
delle Arti e Mestieri, l’Accademia
Reale Militare, la Politecnica, l’Accademia Navale, quella dei Sordomuti, una delle arti
da disegno, un convitto di chirurgia e medicina, uno di musica.
I seminari
furono conservati e potevano svolgere regolarmente e mirabilmente la loro
funzione sociale. Nacque allora anche la Società Reale, cioè un’accademia di storia ed
antichità che si giovò di doni e privilegi e, così pure, quella detta
d’incoraggiamento e pontaniana.
L’istruzione
pubblica permise a tutti di imparare l’arte del leggere e dello scrivere,
consentendo ai figli dei contadini l’accesso agli uffici pubblici, la carriera
nell’esercito e soprattutto la presa di coscienza delle libertà individuali e dell’indipendenza di cui godeva
il Regno delle Due Sicilie.
I Borboni
profusero non poche energie per sviluppare l’istruzione pubblica che prima del
1806 era commessa a 33 scuole normali, ai seminari delle Diocesi Vescovili, ai
corpi religiosi e, come abbiamo già visto, all’Università degli Studi di
Napoli.
Ad
Avellino vi era un collegio che
conferiva i Gradi accademici per la giurisprudenza, la teologia e la medicina.
A Salerno si davano i gradi in medicina; gradi che fecero del dottorato
salernitano una scuola rinomata in tutto il mondo.
Dopo il 1810 in tutti i
comuni si istituirono scuole primarie a spese dei municipi; molte ne furono istituite
nei capoluoghi di provincia.
Ferdinando
II volle incrementare la
cultura ed il sapere nel suo Regno introducendo altre 16 cattedre
nell’Università della capitale, l’Orto Botanico, il Collegio Veterinario; istituì quattro Licei a Salerno,
Catanzaro, Bari e Aquila.
I regolamenti
per le scuole primarie furono approvati il 21 Dicembre 1819. Le ministeriali
del 12 Giugno 1821 e 7 Agosto 1821 stabilirono il modo come dovessero
scegliersi i maestri nelle scuole primarie. Con decreto del 13 Agosto 1850 il
Re nominò i Vescovi ispettori di tutte le scuole del Regno, pubbliche e
private. A Napoli esistevano 14 istituti d’istruzione media superiore con 1.343
alunni; due istituti di nobili fanciulle con 303 educande; 32 Conservatori di
musica frequentati da 2.134 studenti.
Dopo il 1861 il Piemonte,
scientificamente, chiuse tutte le scuole che erano sovvenzionate con denaro
pubblico.
L’operazione
doveva servire a due cose: rendere il Sud schiavo e colonizzato e trasferire i
soldi, tutti quelli possibili, al Nord. Il Piemonte, indebitato di un miliardo
di lire con le banche londinesi, aveva bisogno di liquidità costante, anche per
portare a termine l’opera di pulizia etnica nel Mezzogiorno d’Italia.
Prima ad
essere attaccata fu l’istruzione pubblica, poi vennero svuotati tutti i
forzieri delle banche e quelli dei comuni. Mai, nel Sud, la barbaria fu più
feroce ed infame.
Il Villardi,
che era stato mandato nella capitale a smantellare l’apparato scolastico, così
ricorda:
“Pareva che si volesse levar tutto a Napoli.
Oggi per esempio, noi abbiamo sciolto l’Accademia delle Belle Arti, mentre si
pagano tutti i professori; per l’istruzione secondaria, in una città di
cinquecentomila anime, non abbiamo che un liceo di sessanta alunni e questo con
un ministro intelligente e pieno di volontà…”
Vittorio Emanuele I |
Ecco, il Regno delle Due Sicilie era finito nelle mani degli
eredi di Vittorio Emanuele I, della dinastia
più reazionaria d’Europa; quella cioè che, abolendo il Codice Napoleonico,
ristabilì l’antica legislazione complicata e senza unità, i privilegi fiscali e
l’antica legislazione penale con la fustigazione e, cosa più terribile, proibì
i culti ai cattolici perseguitando anche mortalmente ebrei e valdesi e, cosa
ancora più abominevole, ridiede tutta l’istruzione nelle mani delle scuole religiose
a pagamento, abolendo quelle pubbliche istituite da Napoleone.
Allo stesso
modo represse con ferocia i tentativi dei genovesi di riacquistare l’antica
dignità e libertà. Tra il 1 e il 10 Aprile del 1849, il generale sabaudo Alfonso La Marmora ordinò ai suoi 30.000
bersaglieri il bombardamento di Genova che era insorta contro la tirannia
piemontese.
I bersaglieri
misero a sacco la città depredando beni e cose, violentando donne e bambini.
Uccisero circa 600 genovesi. Vittorio Emanuele II alla
fine di quell’azione si congratulò con La Marmora definendo i cittadini di
Genova “vile ed inetta razza di
canaglie”.
Tutto ciò che era
pubblico doveva essere abolito e così le scuole.
Chi non
poteva pagarsi l’istruzione, secondo le leggi dei Savoia, doveva rimanere
analfabeta e la classe contadina, chiamata dai montanari piemontesi classe
infima da erudire con le fucilazioni e le torture.
In pochi mesi
il governo piemontese distrusse secoli di cultura, di tradizioni, di storia,
secoli di libertà e dignità. Alla guida dei licei del Regno fu mandata gente
illetterata, con il solo scopo di smantellare l’istruzione pubblica e rendere
il popolo ignorante e servo.
In poco tempo
i piemontesi, sotto la guida di ispettori, vice ispettori, delegati, bidelli,
funzionari ed impiegati, quasi tutti venuti dal Piemonte, i quali non
conoscevano nemmeno la lingua italiana, “'nfrancesati”
come erano chiamati dai napoletani, massacrarono e dissolsero la scuola
primaria e secondaria.
Gli scagnozzi e gli scrivani di Vittorio
Emanuele II, re dei galantuomini e della borghesia cisalpina, i servi
del governo della destra storica, ebbero l’ordine di chiudere l’Accademia
Napoletane delle Scienze e
di Archeologia, famosissima in tutto il mondo,
mentre l’Istituto delle Belle Arti fu abolito per decreto.
Mai i Borboni
avevano dissacrato la cultura, né la religione, né la dignità dei contadini e
degli operai. La scuola superiore era affidata ad uomini di grande reputazione
morale e professionalmente preparati. Ai sovrani napoletani poco importava, se
politicamente fossero di idee repubblicane, liberali o legittimiste; sapevano
che la matematica o la fisica non potevano essere politicizzate in una scuola
seria.
Uomini del
calibro di Galluppi, Lanza, Flauti, De Luca, Bernardo Quaranta reggevano le
cattedre universitarie. Macedonio Melloni, cacciato da Parma per le sue idee
liberali, fu accolto dai Borboni affinché portasse la sua esperienza nella
scuola del Regno. Il Melloni era raccomandato presso il Governo Borbonico da
Francesco Arago, ardentissimo e passionale repubblicano, ma ai Borboni
interessava soprattutto “far funzionare
le libere istituzioni nel modo migliore”.
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