Sull’11 Settembre 2001 molti hanno suggerito
spiegazioni complottistiche. Pochi invece hanno parlato del grande inganno
della Casa Bianca dietro l’attacco giapponese di Pearl Harbor, laddove i
documenti dimostrano ampiamente come davvero – in quel caso – la presidenza
americana volle, cercò ed ottenne un attacco proditorio da parte dei giapponesi
per avere un casus belli in grado di trascinare l’intera nazione americana in
un’avventura bellica.
L’11 Settembre 2001 è una delle tante date storiche per
gli Stati Uniti e per il mondo intero. Un giorno che difficilmente potrà essere
dimenticato e che verrà celebrato nei libri di scuola come l’inizio del grande
scontro tra l’Occidente e l’integralismo islamico.
Un giorno che grida vendetta e che ha inorridito il
mondo. Proprio come l’alba del 7 Dicembre 1941. Un giorno come tanti per le
isole Haway dove il clamore della guerra non giunge nemmeno attraverso la
radio.
Gli Stati Uniti del New Deal sono tranquilli, il
presidente Franklin Delano Roosevelt ha assicurato che non entrerà in guerra al
fianco dei cugini britannici che laggiù, in Europa, rischiano seriamente di
capitolare dinanzi la forza distruttrice delle truppe di Adolf Hitler.
Il non intervento era stato uno dei cavalli di
battaglia per la terza rielezione del presidente che era riuscito a dare un
nuovo corso a quell’America uscita con le ossa rotte dalla catastrofe
economico-finanziaria che era stata la grande depressione del 1929.
Eppure quel giorno di routine come tanti, sarebbe
entrato nella storia degli Stati Uniti e del resto del mondo. Un giorno che
avrebbe cambiato le sorti della Seconda Guerra Mondiale. Ma che cosa hanno in
comune l’attacco a Pearl Harbor con quello alle Torri Gemelle? Molto.
Più di quanto si possa immaginare.
Soprattutto per quel che riguarda l’intelligence e la ragion di
stato. Anche se per quanto concerne l’11 Settembre 2001 la verità è ancora
lontana e difficilmente riusciremo a saperla in breve tempo. Resta il fatto che
tutti e due i tragici accadimenti sono stati la scintilla che ha scatenato
l’intervento militare statunitense.
Insomma, almeno per quanto riguarda Pearl Harbor, una
“scusa” necessaria, voluta e cercata nonostante l’alto tributo di sangue che ne
sarebbe derivato. Un attacco proditorio ed impensabile fino a quel giorno,
tranne che per Franklin Delano Roosvelt, il capitano di fregata Arthur McCollum
ed i vertici dell’intelligence statunitense.
Ma cosa c’entrano questi uomini con l’attacco scatenato
dalle Flotte Combinate dell’Imperatore Hirohito? C’entrano per il semplice
motivo che furono loro gli artefici di quello che passò alla storia come
“l’attacco di Pearl Harbor”. La solita propaganda antiamericana propinata agli
ignari lettori proprio mentre nel mondo infuriano guerra e distruzione?
Nulla di tutto questo. La storia, si sa, ha i suoi
tempi di “decantazione” e dopo molti anni rivela all’opinione pubblica quanto
di più nascosto ed indicibile era riposto nel fondo degli scrigni della memoria
ma, soprattutto, nel fondo degli archivi dei servizi segreti.
La verità di quel terribile 7 Dicembre 1941, che tante
similitudini sembra appunto avere con l’11 Settembre 2001, era nascosta nelle
pieghe delle migliaia di documenti classificati “Top Secret” che affollano gli
archivi della Cia, del Fbi, del Pentagono, del Dipartimento di Stato, del
servizio di intelligence della Us Navy, del più recente Nsa e della miriade di
servizi segreti che costellano il panorama politico-militare statunitense.
Se la verità su quell’improvviso (?) attacco giapponese
alla flotta del Pacifico degli Stati Uniti è venuta a galla, lo si deve alla
tenacia e a ben 14 anni di ricerche effettuate da Robert Stinnet, un
giornalista americano, che ha rivelato al mondo come, nonostante le apparenze,
non fu poi tutta colpa di Tokyo se Washington entrò in guerra.
Nel libro “Day of
Deceit. The
Truth About Fdr and Pearl Harbor”, Stinnet mette a nudo il cinismo di quello
che tutti gli americani, di ogni estrazione sociale, fede politica, razza e
religione, consideravano (dopo Washington, Franklin e Lincoln) uno dei padre
della patria.
Fu infatti Roosevelt, senza ombra di dubbio, a condurre una vera
e propria politica della provocazione per indurre l’Imperatore giapponese a
firmare l’ordine di attacco.
Il presidente statunitense era costantemente al
corrente di quanto stava accadendo e pur sapendo che la guerra era ormai alle
porte si guardò bene dall’informare i comandi delle truppe di stanza alle isole
Hawaii.
Follia, incredulità, calcoli sbagliati? Nulla di tutto
questo. Roosevelt voleva che tutto accadesse senza curarsi di danni e vittime.
Effetti collaterali, come li chiameremmo oggi, necessari ad uno scopo
irrinunciabile: l’entrata in guerra al fianco della Gran Bretagna e dell’Unione
Sovietica.
Insomma, la Casa Bianca lasciò deliberatamente che
Tokyo attuasse indisturbata un atto di guerra nei suoi confronti per consentire
al democratico ed anti-interventista (ma solo a fini elettorali) Roosevelt di
entrare in guerra.
Il Memorandum che incrimina la Casa Bianca.
Nel marasma dei documenti analizzati ve n’è uno di
particolare importanza: il Memorandum
McCollum.
Arthur H. McCollum, nato e vissuto in Giappone, da genitori
americani, di cui conosceva usi e costumi ma soprattutto la lingua e la mentalità;
era un capitano di fregata della Marina statunitense e come tale aveva prestato
servizio, seppur per un breve periodo, presso l’ambasciata Usa di Tokyo.
McCollum, però era soprattutto un agente del Nio, il
Naval Intelligence Office di Washington, l’unico abilitato a fornire informazioni
di intelligence e documenti di analisi strategica alla Casa Bianca. Fu proprio
McCollum a fornire al presidente Roosevelt il Memorandum che lo convinse sulla
necessità di sacrificare tante vite americane pur di avere l’opportunità di
entrare in guerra contro la Germania e l’Italia degli odiati dittatori Hitler e
Mussolini.
Il 7 Ottobre 1941, due mesi prima dell’attacco
giapponese a Pearl Harbor, l’agente del Nio entrò nella Sala Ovale della Casa
Bianca consegnando al presidente statunitense quel documento che cambierà la
storia.
Sui pochi fogli redatti dall’ufficiale si ipotizzava
uno scenario a dir poco apocalittico: l’Europa occupata dalle truppe
nazi-fasciste e, con la sconfitta militare britannica, un quasi immediato
“effetto domino” in America dove i territori posti sotto il controllo di Londra
in America Centrale, Meridionale e nei Caraibi, ma anche il Canada sarebbero
caduti nelle mani di Berlino così come la flotta del Mediterraneo e
dell’Atlantico.
Era ovvio che da un simile catastrofico scenario ad uno
che prevedesse l’attacco diretto agli Usa il passo era breve. Era dunque
evidente, e necessario, entrare in guerra al fianco di Londra; se no altro per
tenere lontana la guerra dal proprio territorio.
C’era però un problema non da poco, per la Casa Bianca,
da dover risolvere: come avrebbero preso una tale scelta gli elettori
americani? Non certo bene a giudicare
dai dati di un sondaggio effettuato nel settembre del 1940 (ad un anno
dall’inizio della guerra in Europa) secondo il quale quasi il 90% degli
americani era ben deciso a rimanere fuori dal conflitto.
In più c’era una sorta di “patto” con la nazione da
dover rispettare. Roosevelt aveva infatti assicurato gli elettori (“I Assure You Again, And Again, And Again…”),
e le famiglie americane, che mai nessun “nessun
ragazzo americano sarà sacrificato su campi di battaglia stranieri”.
Come era possibile ovviare a questo problema di non
poco conto? A fornire la risposta fu sempre il “Memorandum McCollum” (un
documento simile a quello nel quale la Cia, 60 anni dopo, assicurava che l’Iraq
di Saddam Hussein fosse in possesso di armi di distruzione di massa).
Si doveva provocare il Giappone e costringerlo ad
attaccare gli Stati Uniti e, per effetto del “Patto Tripartito” firmato tra
Germania, Italia e Giappone il 27 Settembre del 1940 a Berlino, Washington
sarebbe automaticamente scesa in guerra al fianco del cugino britannico contro
il “RoBerTo” (una sorta di “stati canaglia” dell’epoca).
In fondo Londra era rimasta l’unico baluardo alla
straripante potenza delle forze dell’Asse che ora, con l’alleato giapponese,
potevano espandere le loro mire anche nel Pacifico. Washington non poteva
dunque rimanere a guardare.
McCollum, dimostratosi un accorto stratega oltre ad un
ottimo agente di intelligence propose al Presidente otto linee di azione per
provocare l’inevitabile risposta di Tokyo:
1)
Accordarsi con Londra per l’utilizzo della
base navale di Singapore.
2)
Accordarsi con l’Olanda, il cui governo era
in esilio in Gran Bretagna, per l’utilizzo delle basi nelle Indie olandesi
(Sumatra, Borneo, Giava etc…).
3)
Incrementare gli aiuti al governo
nazionalista cinese in guerra con il Giappone.
4)
Inviare incrociatori pesanti a ridosso
delle acque territoriali giapponesi.
5)
Inviare sommergibili sempre nelle stesse
acque di cui sopra.
6)
Mantenere la flotta americana, all’epoca
nel Pacifico, a Pearl Harbor.
7)
Fare pressioni sull’Olanda affinché negasse
le materie prime delle Indie Olandesi al Giappone, compreso il petrolio
necessario per la guerra in Cina.
8)
Imporre un embargo totale al Giappone,
d’intesa con Londra, per strangolare l’economia del Sol Levante.
Roosevelt decise di applicare alla lettera l’elenco di
“pressioni-provocazioni” intraprendendo una serie di azioni che porteranno poi
all’attacco di Pearl Harbor ed al conseguente ingresso nel conflitto mondiale.
Nel Settembre 1940 Roosevelt fa approvare dal Congresso
il “Draft Act” che gli conferisce la facoltà di aiutare la Gran Bretagna e di
convertire le industrie nazionali alla produzione bellica.
Nel Ottobre 1940 la Casa Bianca decide di trattenere
alle Hawaii le navi di stanza nel Pacifico per un’esercitazione sguarnendo
tutte le altre basi della costa continentale. Alla fine del 1940 scatta un
embargo petrolifero congiunto al quale aderisce l’Olanda. Vengono avviate trattative
che risulteranno poi volutamente inutili.
Nel 1941, la Us Navy invia più volte incrociatori nelle
acque territoriali giapponesi. Vibranti proteste di Tokyo. Nel Febbraio 1941,
viene ristrutturata la flotta americana, fino ad allora unica; viene divisa in
Flotta Atlantica e Flotta del Pacifico, questa agli ordini dell’ammiraglio
Husband Kimmel.
L’11 Marzo 1941, il Congresso approva il Lend-Lease Act
che attribuisce al presidente Usa la facoltà di aiutare tutti i paesi in guerra
contro Italia, Germania e Giappone, con prestiti volti all’acquisto bellico che
le industrie americane stavano producendo.
Verso la guerra.
L’embargo petrolifero messo in atto dagli olandesi e
dagli statunitensi cominciava a mettere alle corde il Giappone che cadde nel
piano organizzato da Roosevelt. Le riserve scarseggiavano, e i negoziati
stagnavano, a tal punto che il neo governo giapponese decise l’invasione delle
Indie Olandesi fonte di approvvigionamento. Prima dell’occupazione, però,
bisognava “immobilizzare” la flotta statunitense.
Era il Settembre 1941 quando l’alto Ammiragliato
giapponese, nella persona dell’ammiraglio Isoroku Yamamoto, cominciò a
pianificare l’attacco che prevedeva due direttrici principali:
- la
prima avrebbe colpito Pearl Harbor con una serie di bombardamenti aerei (come poi avvenne).
- La seconda, poche ore
dopo le Hawaii, prevedeva lo sbarco anfibio di un’armata d’occupazione nelle
Filippine (all’epoca colonia statunitense).
Il 2 Novembre dello stesso anno l’Imperatore Hirohito
dà il proprio assenso. Tutto andava secondo i piani della Casa Bianca. Mancava
solo un particolare: il fattore sorpresa. Nessuna forza statunitense avrebbe
dovuto interferire con l’azione giapponese.
Già il 3 Novembre il piano nipponico divenne operativo.
Cominciò un incessante scambio di messaggi cifrati tra ambasciate, consolati,
comandi navali e di truppe. Venne anche individuata la baia di Hitokappu
(nell’arcipelago delle Curili) come località di concentramento per la flotta
che avrebbe attaccato Pearl Harbor.
Le intercettazioni.
Tutti i messaggi vennero intercettati dallo “Splendid
Arrangement”, decriptati e consegnati a Roosevelt e a “pochissimi intimi”.
Durante le intercettazioni si venne a scoprire anche il punto geografico di
raduno della flotta giapponese.
L’unico a non sapere dei movimenti e delle intenzioni
nipponiche era proprio l’ammiraglio Kimmel che da poco aveva assunto il comando
della flotta americana del Pacifico trattenuta a Pearl Harbor come esca. Anche
se era cosciente che la concentrazione rappresentava un pericolo.
Ne era talmente convinto che decise di organizzare
un’esercitazione navale di 4 giorni, dal 21 al 24 Novembre, “Exercise 191” dove
si prevedeva un attacco nipponico alla flotta di stanza alle Hawaii. Ma
quindici ore dell’inizio Washington ordinò a Kimmel di fare dietrofront e
rientrare in porto con la flotta per non “provocare i giapponesi”!
L’esercitazione, insomma non si doveva fare.
Il 26 Novembre la flotta imperiale giapponese, al
comando del vice ammiraglio Chuichi Nagumo, salpa le ancore verso il suo
obiettivo.
Trentuno navi, tra cui 6 portaerei con 423 aerei,
solcavano il mare verso la guerra. L’arrivo sull’obiettivo doveva avvenire poco
dopo l’orario d’inizio ufficiale delle ostilità, non ancora fissata.
L’obiettivo dell’attacco venne “intercettato” da
Washington il giorno prima della partenza della flotta giapponese, cioè il 24
Novembre (il 23 data delle Hawaii): mancava solo la data finale dell’attacco
che Tokyo non aveva comunicato nemmeno ai vertici militari.
A Kimmel venne comunicato soltanto una vaga notizia
riguardante una flotta giapponese salpata da Hitokappu con probabile
destinazione le Filippine o la Malacca.
Le strane manovre di Washington
Nel Pacifico c’erano tre grandi portaerei americane, due
a Pearl Harbor, la Lexington e la Enterprise e una a San Diego, la Saratoga. Il
28 Novembre Washington dà l’ordine di partenza alla Enterprise, e ad 11 navi da
scorta tra incrociatori e cacciatorpediniere.
Il loro compito era quello di portare 12 aerei ai
marine di stanza nell’isola di Wake (molto distante dalle Hawaii). Il 5
Dicembre riceve un altro ordine da Washington, la Lexington. Anche per lei
aerei da consegnare ai marine. Stavolta sono 18 con destinazione le Midway. Con
lei partono altre 8 navi di scorta.
A Pearl Harbor rimangono 90 unità, tutte
relativamente vecchie comprese 8 corazzate con oltre trent’anni di “carriera”.
Facciamo un passo indietro e torniamo alla fine di
Novembre. Il 27 il capo di Stato Maggiore dell’esercito, generale Marshall, invia
un messaggio al tenente generale Short nel quale si annuncia un non meglio
precisato attacco giapponese, ma che il governo “desiderava” che fosse Tokyo a
fare il “primo passo”.
Dunque, mettere in stato d’allerta le truppe ma non la
popolazione. Il giorno seguente lo stesso identico messaggio giunge
all’ammiraglio Kimmel. Allarmare le truppe senza dare nell’occhio a presunte
spie giapponesi ma, soprattutto, alla popolazione era veramente arduo. Così i
due comandi militari decisero per un basso profilo.
Gli ultimi atti.
Intanto la flotta giapponese era incappata in una
tempesta che aveva letteralmente disperso la formazione tanto da rendere
impossibile lo scambio di messaggi luminosi tra nave e nave. Il 30 Novembre il
vice ammiraglio Nagumo si vede costretto a interrompere il silenzio radio per
ricompattare la flotta d’attacco.
I messaggi radio vennero puntualmente intercettati,
decriptati e inviati a Roosevelt. Tutto questo, però, venne tenuto segreto a
Kimmel e a Short. Il 2 Dicembre l’ammiraglio Yamamoto trasmette via radio una
frase: “Niitaka-yama nobore 12 08” (scalare il monte Niitaka l’8 Dicembre).
Era l’ordine d’attacco fissato per l’8 Dicembre (IL 7,
DATA DI Tokyo). Nemmeno questo messaggio venne consegnato a Kimmel e Short. E
non furono informati nemmeno dei 4 cablogrammi trasmessi in codice “purple” tra
Tokyo e l’ambasciatore a Washington, intercettati dall’intelligence Usa.
I primi due contenevano una comunicazione a Washington
suddivisa in 13 parti nella quale si poneva fine ad ogni tipo di negoziato. Il
terzo ed il quarto, trasmessi la mattina del 7 Dicembre, contenevano la
quattordicesima parte nella quale si comunicava la rottura delle relazioni
diplomatiche e l’ordine di consegnare la dichiarazione di guerra un’ora prima
dell’attacco, cioè alle 13,00 ora di Washington.
Queste due parti furono poste in visione a Roosevelt
alle ore 10,00, 4 ore prima l’attacco. Sulla base di tali informazioni il
comando generale statunitense compilò un messaggio d’allerta per le Hawaii.
Messaggi che “inspiegabilmente” giunsero a destinazione ad attacco avvenuto. Il
16 Dicembre l’ammiraglio Kimmel ed il Tenente generale Short, inconsapevoli
vittime delle manovre di Roosevelt, vengono rimossi dall’incarico e degradati
per negligenza nel comando. In fondo la ragion di Stato conta più della
buonafede delle persone.
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