Da
anni, anche recentemente, in molti si parla di Uranio Impoverito affrontando le
tematiche più diverse, spesso estremizzando i concetti e proponendo realtà non
congrue con l’effettiva natura e pericolosità del materiale. La Comunità internazionale
da tempo si interessa del problema approcciandolo su grande scala.
Il
Dott. Stefano Montanari, dal 2004 alla direzione scientifica del laboratorio
Nanodiagnostics di Modena, esperto e preparato ricercatore apprezzato in campo
internazionale e nazionale, ci propone il suo pensiero “scientifico”
sull’argomento, affrontandolo con l’ottica di uno scienziato profondo
conoscitore delle nanopatologie, soprattutto per quanto attiene alle fonti
inquinanti da polveri ultrafini e si occupa da un decennio insieme alla moglie,
la Dott.ssa
Antonietta Gatti, di ricerche nel campo napatologico ed
ambientale.
Ospito
in questo blog il suo articolo con estremo piacere (il Dott. Montanari gestisce
comunque un proprio blog che merita di essere visitato www.stefanomontanari.net) con la speranza di poter amplificare
il più possibile l’informazione su una tematica della massima importanza e per
offrire spunti di meditazione che aiutino a fugare qualsiasi dubbio che ancora
sussiste sulla pericolosità del materiale.
Un’iniziativa
intesa anche per tenere alta l’attenzione su una realtà troppe volte oscurata
da interessi non meglio definiti ed in qualche modo concorrere ad aiutare anche
coloro – militari e civili – vittime degli effetti del DU ma che ancora devono
lottare perché il danno subito sia riconosciuto dallo Stato.
Un
pensiero quello espresso in maniera semplice e chiara dal Dott. Montanari, che
si va ad aggiungere alle iniziative in corso portate avanti dalla Campagna
Internazionale per la messa a bando delle armi all’Uranio Impoverito.
Fernando
Termentini, 16 Feb. 2015
URANIO IMPOVERITO: VEDIAMO DI FARE UN PO’ DI CHIAREZZA
Dott.
Stefano Montanari – Laboratorio Nanodiagnostics – Modena
Sull’uranio impoverito io sono impegnato insieme a mia
moglie, la dott.ssa Antonietta Gatti, da oltre dieci anni. Tutto sommato, per
chi non debba lavorarci in maniera specialistica, l’argomento non presenta
particolari difficoltà di comprensione. Eppure pare si faccia di tutto per
rendere nebuloso un tema che nebuloso non è affatto.
Dopo averne detto e scritto innumerevoli volte,
evidentemente senza risultato apprezzabile, vedrò di essere quanto più semplice
possibile, sperando di fare breccia anche nei cervelli più impervi.
Nel corso delle guerre nei Balcani e in quelle intorno
ai pozzi di petrolio del Medio Oriente non era affatto insolito assistere al
ritorno di militari che presentavano una collezione di sintomi che, allo stato
della Medicina di allora, in associazione reciproca risultavano ben poco
comprensibili quando non del tutto misteriosi.
Spesso nello stesso soggetto si presentavano insieme
irritabilità fino all’aggressività, insonnia, perdita di memoria a breve
termine, dolori nella minzione e nell’eiaculazione, sudorazione profusa
soprattutto di notte, spossatezza e, dulcis in fundo, cancri.
Cancri al plurale perché di quelli compariva una
varietà ragguardevole, anche se i casi a carico del sistema linfatico e del
sangue erano i più frequenti. Ora vediamo anche cancri tripli, cioè tre tipi
diversi di tumori presenti contemporaneamente nello stesso soggetto.
Il tutto iniziava e inizia quasi di regola con un po’
di febbre e, magari, un po’ di diarrea che vengono catalogate come segni di
un’influenza e non vengono presi in considerazione nemmeno dal paziente.
Nessuna meraviglia essendo la cosa “normale”:
all’inizio, del fatto non si diede notizia pubblica. Poi le cose cominciarono a
trapelare e, come da copione, le si negò. Questo fino a che negarle non fu più
possibile e, allora, ecco scatenarsi le ipotesi.
Lasciando da un canto le più bizzarre, furono tirate in
ballo le tende in cui i militari dormivano, per varie ragioni tende irrorate da
farmaci. Poi furono i medicinali che ai militari venivano somministrati, a
volte senza alcuna indicazione, a volte totalmente al di fuori di quanto sta
scritto nella più elementare prudenza (es. la piridostigmina).
Poi, in maniera più specifica, furono i vaccini da cui
i soldati sono bersagliati in modo tutt’altro che scientifico e senza le più
ovvie precauzioni. Di tutto questo pandemonio di accuse quasi sempre sostenute
da perfetti incompetenti tra cui giornalisti e membri laici di comitati, tutti,
comunque, senza esperienza in proposito, qualcosa resta ancora in piedi, e
questo anche al cospetto di un’evidenza che dovrebbe essere decisiva: delle
stesse sindromi (una sindrome è un insieme di sintomi) soffrono pure tanti
civili che non hanno mai dormito nelle tende, non hanno mai preso i farmaci dei
militari e meno che mai si sono vaccinati.
Ecco, allora, comparire sul banco degl’imputati un
accusato molto più credibile: l’uranio impoverito.
Mi si permetta ora una disgressione, peraltro doverosa,
visto che tanti, soprattutto tanti giornalisti, ne dissertano ma pochi sanno di
che cosa stanno parlando: che cos’è l’uranio impoverito che d’ora in avanti
sigleremo come si fa abitualmente DU (Depleted Uranium)?
L’uranio è un elemento metallico niente affatto raro
nella crosta terrestre dove è presente per circa 1,3 parti per milione ed è
molto più comune di altri metalli come, ad esempio, l’argento (0,055 parti per
milione). In natura esistono tre isotopi di uranio (lo stesso elemento chimico
può esistere con masse diverse perché nel suo nucleo ci sono più o meno
neutroni; le proprietà chimiche sono le stese, mentre variano quelle fisiche).
Nell’uranio naturale gl’isotopi sono il 238, il 235 e il 234, con il primo
presente per il 99,3%, il secondo per lo 0,7 e il terzo è estremamente raro.
E’ il 235 ad avere interesse perché trova applicazione
per scopi nucleari, dalle bombe alle centrali di energia. Se si vuole ottenerlo
per questi usi si mette in atto un’operazione piuttosto complessa con cui si
arricchisce il 238 con il 235 prelevato da grandi quantità di altro uranio
naturale.
Quello che si ottiene è da una parte uranio arricchito
del prezioso 235 e dall’altra ciò che resta, cioè tanto 238 quasi privo di 235,
e questo è il famoso DU: di fatto un rifiuto.
A questo punto sorge il problema di cosa fare di questo
DU che risulta imbarazzante un po’ per il suo altissimo peso specifico (oltre
19 volte quello dell’acqua) e molto perché è radioattivo.
Al di là dei nascondigli più o meno efficaci in cui si
cerca di sottrarlo alla percezione comune, qualche impiego gli si è trovato nei
contrappesi per ascensori, nelle chiglie delle barche da competizione, nei
bilanciamenti degli aerei, nelle punte delle sonde petrolifere e negli schermi
che si usano come ripari per i raggi x.
Ma di quella roba da sistemare da qualche parte ne
resta ancora tanta perché, per produrre uranio arricchito, in particolare
quello per uso bellico dove è necessario moltissimo 235, occorrono quantità
enormi di uranio naturale.
Il colpo di genio degli Anni Settanta fu di accorgersi
che il rifiuto DU può essere usato nei proiettili grazie al suo essere un
ottimo penetratore e alla sua piroforicità, vale a dire alla sua proprietà di
sviluppare una temperatura di un po’ più di 3.000 °C quando, in ambiente di aria, subisce uno
shock.
Così gli scienziati militari statunitensi cominciarono
a studiare proiettili all’uranio impoverito, strumenti bellici quanto mai
efficaci che avevano il vantaggio collaterale di liberarsi di un po’ di uranio
ormai inutilizzabile trasformandolo in particelle visibili solo al microscopio
elettronico. Di fatto la Legge
di Conservazione della Massa ci assicura che, qualunque cosa si faccia, non va
perduto un solo atomo, ma occhio non vede…
A fine Anni Settanta il centro militare USA di Eglin approntò
un documento che restò per lungo tempo segreto, per poi comparire quatto
quatto, senza la minima pubblicità, parecchio più tardi. In quelle poche pagine
s’illustrano gli esperimenti compiuti e si sottolinea come pochi chilogrammi di
DU, un piccolo volume a causa dell’altissimo peso specifico di quel metallo,
potessero di fatto vaporizzare il bersaglio producendo poi particelle sferiche
di piccolissime dimensioni.
Allora di nano patologie, cioè di malattie da micro- e
nano particelle, non si parlava ancora, ma già chi compilò il rapporto sollevò
il problema sanitario: quelle polveri così sottili potevano essere inalate
provocando danni alla salute. Esattamente quali non era ancora nell’esperienza
medica, ma che i danni ci fossero era già ovvio quasi quarant’anni fa.
Il 1° Marzo 1991, a distanza di oltre una dozzina
d’anni dal documento di Eglin, il Laboratorio Nazionale di Los Alamos nel New
Mexico scrisse un breve memorandum in cui diceva che, salvo obiezioni dovute
all’efficacia del DU, queste armi potrebbero diventare “politicamente
inaccettabili ed essere cancellate dall’arsenale”. Il problema era l’impatto
pesantissimo dell’armamento sull’ambiente, cosa di cui gli americani, ancora
ignari degli effetti reali sugli organismi viventi, erano comunque già ben
consci.
LA IL DU era troppo bello per essere accantonato e il
suo s’intensificò, con le zone di cui ho detto sopra, Balcani e Medio Oriente,
diventati teatri consueti del suo uso, ma è del tutto plausibile che il DU sia
stato usato anche in qualcuna delle tante guerre, magari poco note, che si
combattono sul Pianeta.
Non so se sia il caso di sorprendersi se gli americani
che tra ex Jugoslavia e Iraq combattevano presero delle vistose anche se un po’
rozze precauzioni mentre altri eserciti, non saprei dire se per mancata
informazione o per superficialità, di precauzioni non presero altra se non
quella di negare che il DU fosse utilizzato.
Nel tempo, poi, i documenti americani che provano come
le conseguenze dell’uso di quei proiettili fossero sempre più note si sono
accumulati.
Molto in breve, vediamo che cosa accade quando si spara
uno di quei proiettili.
Come ho detto, a causa della sua piriforicità bersaglio
e proiettile vengono di fatto aerosolizzati e trasformati, così, nei loro
costituendi di piccolissime molecole o, più spesso, di atomi. Queste sostanze
vengono scagliate relativamente lontano dal punto d’impatto e trovano in breve
un ambiente di gran lunga più freddo dei 3.036/3.063 °C in cui si sono formate.
In questo ambiente più freddo atomi e piccole molecole
si condensano velocemente in modo del tutto casuale, tanto da avere
composizioni chimiche elementari anche molto complesse, formando delle sfere
cave con la superficie cristallina ed estremamente fragile, tanto da rompersi
al minimo urto in frammenti come è naturale ancora più piccoli.
Queste particelle sono talmente minuscole e leggere da
comportarsi sotto diversi aspetti come gas e, come tali, galleggiano nell’aria
potendo compiere viaggi anche di migliaia di chilometri. Giusto come noterella
di attualità, è di questi giorni la scoperta nei ghiacci delle Ande dei residui
grossolani (rispetto alle polveri di cui ci stiamo occupando) di piombo e
arsenico provenienti da una miniera d’argento sfruttata dagli spagnoli dal 1572
al Settecento.
Quei residui uccisero migliaia di persone e sono stati
trovati intatti a 5.600 metri d’altitudine, a 800 km dalla miniera. Le nostre
polveri pesano anche molte migliaia di volte meno di quelle andine e, dunque,
non è difficile immaginare che distanze possano coprire.
Deve essere chiaro che quelle polveri sono molto spesso
“eterne”, con ciò intendo che moltissime di loro non sono degradabili, Dunque,
una volta prodotte è per sempre e terra, aria e acqua non se ne libereranno
mai.
Non ci si illuda che siano possibili bonifiche, e
questo non solo per motivi economici. Le quantità, la diffusione, la mobilità,
la dimensione con la capacità d’insinuarsi dovunque renderebbero qualunque
tentativo appena efficace su una frazione talmente esigua dei materiali in gioco
da renderlo velleitario.
Quei piccolissimi frammenti di materia ora così diversi
chimicamente da ciò da cui avevano avuto origine vengono inalati e respirati
raggiungendo zone molto profonde dell’apparato respiratorio, fino ad entrare
almeno in parte negli alveoli polmonari.
Da lì, nel volgere di poche decine di secondi, passano
nel sangue dove, nei soggetti che non producono nel loro organismo alcune
sostanze capaci di contrastare la formazione di trombi (attivatori del
plasminogeno) provocano un’ipercoagulazione del sangue con conseguenti trombo
embolie polmonari nel comparto venoso, oppure, in arteria, ictus e infarto.
Negli altri soggetti quelle polveri proseguono il loro
viaggio fino ad entrare in qualunque organo, compreso il cervello che non pare
essere dotato di alcuna protezione particolare, con la barriera
emato-cerebrale, in altre circostanze protettiva, priva di efficacia.
Entrate nell’organo o nel tessuto, le particelle
vengono catturate come accadrebbe in qualunque filtro meccanico, e non esistono
processi fisiologici o farmacologici per liberarsene, Così quei granelli solidi
e inorganici restano in loco, venendo percepiti per quello che sono: corpi
estranei.
La reazione a questa intrusione ineliminabile è la
formazione di un tessuto infiammatorio che circonda e isola le particelle. Una
condizione simile è all’origine di forme di cancro, come riporta un’enorme
letteratura medica.
Ma le polveri fanno anche altro.
Se vanno nel
pancreas possono indurre un diabete di tipo 1 bloccando la formazione d’insulina.
Se passano nello sperma danno sterilità e inducono la formazione di
piaghe sanguinanti e dolorose nel canale vaginale della partner sessuale.
Se ad essere colpita dalle
polveri è una donna gravida, si può avere un aborto o il parto di un bambino
malformato o di un già malati di cancro.
Ad aggravare la situazione c’è la radioattività del DU.
Non si tratta di una radioattività particolarmente marcata, ma è ovvio che,
laddove di DU se n’è usato parecchio, la radioattività c’è eccome e questa
condizione è una concausa responsabile dell’innesco delle patologie, patologie
che, non saprei dire se è anche per questo, nei militari che abbiamo avuto
occasione di analizzare (e sono circa 200), osservandone al microscopio
elettronico i tessuti patologici e trovandoci le particelle incriminate, si
manifestano con una rapidità ragguardevole.
I civili controllabili sono relativamente pochi:
principalmente giornalisti e operatori di organizzazioni non governative. La
soverchiante maggioranza dei civili ammalati appartiene a zone in cui
l’assistenza sanitaria non è certo di prim’ordine né queste persone hanno
accesso al nostro laboratorio, purtroppo l’unico in cui si eseguono le indagini
nano patologiche del caso. Ci arrivano, invece, i casi di militari e in qualche
occasione questi sono venuti anche dall’estero.
Per ognuno di loro, oltre a dover affrontare la
situazione oggettivamente terribile di una malattia gravissima e del lavoro
perso, ci sono le condizioni umilianti di dover affrontare gravi difficoltà
economiche e un processo contro lo stato datore di lavoro per cercare di far
valere i propri diritti di lavoratore. Non dimentichiamo che, ufficialmente, i
militari non sono mai andati a fare la guerra, ma sono andati in missione di
pace. Dunque lavoratori.
Non è un mistero per nessuno che, dal punto di vista
della propria economia, l’Italia corre su un filo sospeso altissimo da terra e
non sorprenderà nessuno se lo stato cerca di sottrarsi ai propri obblighi
legali e, ancor prima, morali, lasciando i militari ammalati abbandonati e
senza un soldo.
Per fare questo ogni appiglio pare possibile. Già
qualche anno fa la Difesa organizzò una riunione di “scienziati” (inevitabili
le virgolette) presso la sede del CNR di Roma e costoro, nessuno dei quali
aveva la benché minima esperienza in proposito al di là di qualcuno che aveva
eseguito esperimenti del tutto privi di qualunque significato (e sono
generoso), conclusero che, in fondo, le particelle come quelle di cui ci stiamo
occupando sono innocue.
Al di là della scienza a livello mondiale, è
l’Organizzazione Mondiale della Sanità a smentire quei personaggi le cui
esternazioni, per quanto grottescamente infondate e basate su un ancora più
grottesco “lei non sa chi sono io”, sono sicuramente servite in qualche
circostanza per sottrarsi al risarcimento dovuto a qualcuno. Per fortuna
esistono giudici che fanno giustizia e per diversi soldati sono già cominciate
ad uscire sentenze a favore.
Naturalmente non è questo ciò di cui mi devo occupare
io, per mestiere relegato nella freddezza di un laboratorio scientifico, ma di
tanto in tanto quei ragazzi li incontro non solo nelle loro biopsie, ma per
davvero in carne ed ossa. Non sono tanto le loro sofferenze a lasciarmi senza
parole: sono la loro delusione e la loro dignità.
Dott. Stefano Montanari – 16 Febbraio 2015, ore 9,00
Nessun commento:
Posta un commento